[ il Saggiatore, Milano 2013 ]
Può la distanza essere la migliore premessa per far dialogare opere letterarie differenti? È possibile ripensare il gesto del comparatista come una pratica di diffrazione piuttosto che come esercizio analogico fondato sul principio delle somiglianze di famiglia? Si può studiare il rapporto tra Dante e i moderni non in termini di influenza ma secondo un movimento circolare che attribuisca a opere successive il potere di illuminare, per scarti, il modello originario da cui si suppone esse derivino? Sono queste alcune delle questioni metodologiche che Manuele Gragnolati pone nel suo ambizioso libro su Dante, Pasolini e Morante. «Sometimes you can see a celestial object better by looking at something else, with it, in the sky» è la bella epigrafe – da un saggio di Ann Carson su Simonide e Celan – che apre l’introduzione al volume e ne condensa la premessa teorica: gli oggetti della cultura si aggregano in costellazioni all’interno delle quali il senso della differenza conta non meno delle affinità filologicamente fondate. Secondo questo principio, chiarito attraverso il riferimento alla teoria della diffrazione elaborata dall’epistemologa Donna Haraway, lo studioso che rivolga lo sguardo a una costellazione di oggetti culturali dovrebbe non solo individuare le dinamiche che ne regolano la relazione, ma anche provare a osservare l’uno attraverso l’altro. Il libro, così, si compone di una serie di letture specifiche, che intendono le opere come singolarità da attraversare verticalmente, e di un reticolo di percorsi orizzontali, che derogano alla gerarchia tra modello e sue rielaborazioni e propongono un modo nuovo di lavorare sulle ramificazioni dantesche in epoca moderna, fondato sulla fiducia nella possibilità di ricomprendere Dante guardando ad altro.
Tre sono le questioni chiave indagate: l’autore come soggetto di una performance; il desiderio come forma del testo; la relazione tra corpo e linguaggio. Nel primo capitolo, dedicato alla Vita nuova, Gragnolati dimostra in che modo Dante nasca come autore in senso moderno: la riscrittura delle liriche raccolte nel libello, realizzata grazie alla risemantizzazione garantita dalla narrazione in prosa, viene letta come una «performance dell’autore», che assembla i suoi scritti in funzione di una rappresentazione teleologica di sé e del proprio passato. Gragnolati enfatizza lo scarto che separa Dante dalla tradizione lirica precedente: l’io della Vita nuova non è un soggetto fungibile ma espressione di un individuo storico. Ma il senso della dimensione performativa della Vita nuova si definisce con chiarezza nel capitolo successivo, dedicato alla Divina Mimesis. Qui Gragnolati non si limita a confrontare due stadi distinti di una stessa genealogia: osservare Dante attraverso la Divina Mimesis, la cui testualità stratificata mira alla distruzione della performance dell’autore, permette di cogliere il significato profondo dell’operazione allestita nel libello. Allo stesso modo, nel terzo capitolo la rilettura in chiave queer di Petrolio si rifrange di nuovo sull’analisi della costruzione della temporalità nella Vita nuova: il rifiuto del progresso e del futuro, interpretato secondo il paradigma queer elaborato da Edelman, diverge dal movimento teleologico di sintesi che presiede alla compilazione del libello e annuncia il progetto della Commedia. Tanto più ampia la diffrazione, tanto più efficace l’affondo ermeneutico.
È costruita secondo lo stesso principio anche la seconda metà del libro, che comprende due capitoli sulla fenomenologia del corpo in relazione al desiderio nella Commedia, cui è accostata una lettura verticale di Aracoeli. Le pagine finali – le più audaci da un punto di vista critico – provano a osservare la temporalità simultanea di Paradiso XXXIII dalla prospettiva non teleologica di Pasolini e Morante. Ne risulta una lezione di metodo estremamente preziosa: il gesto del comparatista trova senso nel momento in cui la differenza culturale non è semplicemente ricondotta alla somiglianza, ma resa dinamica e produttiva.
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